Gatto Atlantico

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Tu chiamale se vuoi


La vita è strana. Io qui sto bene. Non sento fatica. E anche se faccio stravizi e il mio apparato digerente si ribella sto bene lo stesso.
I miei pensieri sono limpidi soprattutto. Si sbrogliano i nodi e si schiariscono le ambiguità.
La serenità è un bene prezioso da conservare più a lungo possibile.
I fantasmi sono lontani. Non mi fanno più paura finalmente. Mi fanno anche tenerezza. La mia pelle è distesa. Le difese abbassate perché non corro pericoli nemmeno da me stessa.
Vorrei poter dire cose a qualcuno. Ma non riesco.
Guardo.
Mi affaccio. Sorrido.
Voler bene è facile. Più difficile saperlo esprimere davvero. Prima o poi ci si riesce.

Questa casa mi è familiare. Amo passarci la maggior parte del tempo quando sono qui. Ha la temperatura ideale.
E mi procura buoni pensieri. La macchia di fronte e le strade lievi in questo tratto di altopiano, i prati con i fiori bianchi e le fratte che fornivano materiali per i frustini a nonno, sono altrettanto familiari. La mia fortuna è aver vissuto sempre circondata dalla bellezza, ovunque abbia riposato.

Bellezza, riposo, pensieri sereni. Le voci di sempre fuori alla porta che chiacchierano del mondo.
Le risate con i compagni di gioco dell’infanzia e i loro capelli bianchi.
La mia vita che mi passa davanti, a rallentatore. Con le sue emozioni. Con il cuore sempre attivo. Con le attese, le pretese, le gioie e i dolori da dimenticare.
Ringrazio Dio o chi se ne occupa al suo posto di avermi fatto lenta a superare ma determinata a farlo. E a dimenticare il brutto. O a ricordarlo come si ricorda un film.
Non lo so dire – forse a volte lo so scrivere ma non sempre – ma a volte ho dentro di me onde di dolcezze infinite.

E amo molto quando trovo il silenzio adatto e me le riesco a godere tutte per me. Non capita spesso.

Ma oggi, alle 12.05 è così.

Vabbè va. Me butto sulle parole crociate crittografate.

Questo post è per tutti, ma anche, in qualche modo, un discorso che faccio a qualcuno in particolare. Non so se capire tu possa o no (penso di sì), ma comunque sia, “tu chiamale se vuoi emozioni”.

DELLA MANCANZA


Sono una persona che di rado sente la mancanza di qualcuno o di qualcosa. Non ho mai ben capito perché. Di certo ho dovuto fare a meno anche precocemente di persone che ho molto amato – penso a mio padre o a Stelio – ma non mi viene da dire che mi siano mancati davvero.
Magari ho nostalgia di alcuni momenti.

Ma io sono una che guarda sempre avanti. In questo sono come mia madre. Le cose finiscono e si riprende il cammino senza guardarsi dietro.

Ho un rapporto fortissimo con il passato. Ho studiato storia e poi ricordo tutto. Anche le parole di un dialogo qualsiasi. Ora la mia mente è più selettiva ma comunque io ricordo tutto. E archivio.

Però guardo avanti: quando una cosa la considero finita per me è finita davvero e per sempre.

E vale per le persone e anche per le cose.

La casa che ho abitato fino al 2000 per più di trenta anni, per esempio, resterà per sempre nel mio cuore. Ma non la rimpiango. Non mi manca. Non la penso.
Non penso più nemmeno a casa “Valìda” (si chiama così per ragioni che non spiegherò) dove ho vissuto per qualche anno da sola e con Stelio. Era una casa accogliente e la ricordo con affetto e gratitudine. Ma non la rimpiango.

Non si torna indietro mai.

E poi non sento neanche le mancanze geografiche. Ho avuto relazioni anche molto importanti a distanza. (Almeno un paio) ma non sentivo la mancanza di queste persone. Le sentivo. Ero solo tanto felice quando potevo incontrarle.

Sono fatta così. Forse è anche una forma di difesa la mia. Di fondo sono autosufficiente e amo la mia dolce solitudine e anche la mia magnifica moltitudine. Sono una inquieta ma ad inquietarmi è sempre il presente. Storico e geografico.

No.

Sapete di cosa sento la mancanza?

Delle cose che non sono avvenute. Che sembrava stessero accadendo ma era una illusione. Che sarebbero potute accadere ma non ce l’hanno fatta. Che sono state avventatamente proclamate e invece non erano reali.
Sento la mancanza di ogni speranza disattesa e di ogni illusione felice.

Non per questo me ne sono mai fatta una malattia.

Però questo mio modo di essere mi ha reso sempre molto attenta a quello che dicevo e a quello che facevo. Il rispetto per gli altri è per me sempre la prima cosa. Perché non si deve mai fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te. O non fatto anche.

E poi perché io non voglio mancare a nessuno.

Quando accade mi perdo.

Lo studio e la spocchia


Oggi mi sono trovata a dover fare cose vicino alla città universitaria.
Avevo pensato di passare dentro per accorciare la strada verso la metro che mi avrebbe riportato a casa. Invece ho preferito prendere il tram: fa caldo.

Però un po’ mi spiace. Credo di non essere più entrata alla Sapienza da quando ho ritirato il mio diploma di dottorato.

Ho passato molto del mio tempo là dentro. Prima come studentessa fuori corso (a mia discolpa anche il fatto che ho sempre un po’ lavorato oltre ad essere indolente inside) e poi come cultrice della materia e dottoranda.

Sono stata ai due lati della barricata ed entrambi mi stavano scomodi. Ecco perché in definitiva ho scelto altre strade, anche se sono consapevole che le cose che mi riescono meglio nella vita sono sempre state leggere e scrivere.

Studiare e mettere in bella copia.

Mi piace ancora studiare. Ogni tanto mi innamoro di qualcosa e mi prende la spinta autodidatta. Ho un metodo poi per studiare. Un metodo utile per studi storici prevalentemente, però è adattabile.

Non ho però vinto la mia indolenza.

La mia professoressa di Storia e Filosofia mi disse una volta che io ero una piena di interessi e con un cervello che rifiutava la settorialità e questo per lei era una cosa buona che mi avrebbe permesso di affrontare qualsiasi nuova avventura nella vita (più o meno me la disse così). Ma mi disse anche che la condizione essenziale era vincere la mia indolenza, il mio accomodarmi su quello che già so. E giocarmelo in tutte le versioni. Perché se lo avessi fatto non avrei mai potuto eccellere. Mi sarei accontentata.

Ieri un tizio che non ho nemmeno bene capito chi fosse, non contento di un paio di mie risposte a dei suoi commenti (risposte piccate perché i suoi commenti erano inutilmente arroganti e provocatori) alla fine ha concluso che dovevo studiare di più e avere meno spocchia.

Della spocchia me ne frego. Chi vede spocchia in me ha un problema di insicurezza interiore. A me frega meno di niente di fare sfoggio di conoscenze e di arrogarmi sapienza e verità. Sono una assertiva quando esprimo una opinione. Ma mi piace la discussione anche accesa. Amo la pugna intellettuale. Mi accresce e imparo.

No. La spocchia no.

Ma sul fatto che dovrei studiare di più ha ragione. Io mi accomodo. Sono pigra. E quando le persone trascurano le cose che riescono loro meglio poi si avviano in una mediocrità autocompiacente di cui spesso non si rendono nemmeno conto.

Vado presa a frustate sul culo.

RIFLESSIONE SULL’ARTE CONTEMPORANEA


Si vede che gli amici che devono passare a prendermi hanno un lieve ritardo oggi?

E poi che significa “riflessione sull’arte”?

In realtà volevo fare una riflessione sulla musica e in particolare sulla musica di cui mi occupo io. Che è musica d’arte.

Però poi preferisco rimanere generica perché in fondo riguarda questa epoca e ogni forma d’arte in generale.

Cosa manca all’arte di questi giorni? Non la bellezza, non il senso lirico del verso, non il senso della musica o dei colori. In alcuni casi poi non manca la ricerca.

È l’epos che manca, ahinoi.

Il senso epico dell’arte. Intendendo dire la forza assoluta che travolge ogni cosa, che ci muta antropologicamente, che costruisce nuovi miti, che uccide, che resuscita, che fa viaggiare nell’ade e uscirne ma senza voltarsi indietro. Manca la rivoluzione, il senso assoluto delle cose. Manca la tragedia che non sia soltanto la fase paranoide delle nostre coscienze (trascritta o vissuta da un artista).
Invece la tragedia è ben altro. È qualcuno che sa raccontare il senso intimo delle stragi a Srebenica, o del bambino che attraversa da solo su un gommone il Mediterraneo. Che sa spiegare la morte che ti cammina accanto, la povertà, la fuga.

Io invece vedo solo rappresentata l’intima paura. Che ha le sue ragioni di essere raccontata. Ma non basta.

E poi oltre al senso epico, manca alle nostre stagioni l’amore per lo studio, l’applicazione, la conoscenza. La fame di sapere e imparare e confrontarsi e sentirsi umiliati da chi è immensamente più bravo di te. Una fame che devi saper vivere al punto da non sentire l’altra fame, quella di cibo.

Pasolini era un poeta. Come disse Moravia uno dei pochi del Novecento. Ma per esserlo davvero e fino in fondo Pasolini ha sofferto, ha sofferto degli altri e di se stesso. E ha studiato guardato esplorato macinato chilometri e pagine su pagine. Ha sentito musica guardato film, studiato opere d’arte, sperimentato. Ha sbagliato. Ha commesso atti impuri gravissimi. Ha vissuto tragicamente la sua età.

Aspiranti poeti, amanti dell’arte: mollate i social. Lasciateli a noi poveri di spirito.
E voi studiate studiate studiate e fate la rivoluzione.

È ora.

È un vostro dovere.

Ne abbiamo bisogno

Il gatto selvaggio


Chissà come riesci a comparire dai tuoi lunghi silenzi. Tu che ora aspiri a conquistare la montagna e sei nato invece col viso appoggiato sul mare e le braccia spalancate ad accoglierlo.
È passato un tempo infinito ma io ti ricordo come eri. Un gatto. Un gatto selvaggio, arruffato. Con gli occhi più belli che io avessi mai visto.
Io che dalla montagna scendevo, volevo conquistare il mare e superare la bufera che l’adolescenza e il dolore della morte di mio padre mi scatenava dentro. Chi mi guardava vedeva un essere ben fatto e immobile. Un quintale di capelli ricci, gli occhi che erano piccoli e impercettibili come fessure. Al punto che qualcuno non capiva nemmeno bene quando davvero erano aperti.

Ci siamo incontrati un mattino, là dove il sole decide di andare a dormire, e la mia vita non è stata più la stessa. La bufera ha traslocato fuori. Ho amato molto ma non ho mai più amato in quel modo. Ero tutta dentro, tutta dentro. Tutto ti eri preso. Erano svanite le parole i pensieri qualsiasi altra ombra intorno. Sapevo che c’eri ancora prima di vederti apparire. E quando apparivi sparivano bar persone lungomare spiaggia granite di frutti esotici brioche gelati e ogni forma di senso compiuto.
Ho combattuto per quattro anni – da allora – contro questa insensatezza. Come è andata lo sappiamo bene tu ed io.
Non ti penso e non ti cerco, ma quando appari all’improvviso nel mio orizzonte sorrido. Una volta mi hai detto che sono come una delle dita della tua mano. E me lo hai detto pochi anni fa.
E tu sei la stanza segreta del mio cuore.

Chissà perché riesci da trenta anni a comparire ogni volta che il mio cuore è in movimento e viaggia anarchico in direzioni strane.

Però succede. Come i gemelli che si sentono da una parte all’altra dell’oceano, una parte di te mi sente e mi sente forte.

Sta succedendo ancora. Ma non mi sorprende.
Come non mi sorprende quando io mi avvicino a te. E mentre l’aereo atterra io già sento dentro che ci sei. È sempre, per sempre, sparisce la pista, il nastro dei bagagli il taxi l’albergo le grandi strade.

E passerà un lampione un muro un ponte un bar poi passerà anche me.

Ti ho scritto milioni di lettere che avrai per necessità buttato. Era un’opera giovanile una volta ti ho detto. Eppure non riuscivo mai a dirti la verità. Dopo ho imparato. Dopo di te ho capito che solo dire la verità ha un senso. E bisogna prima di dirla riconoscerla, impararla, amarla.

Non ti ho detto la verità e forse per questo non sono mai riuscita a raccontarti. Non so bene perché ci riesco stamani.
O forse sì.
Ma non va detto.

Non è vero che il primo amore non si scorda mai.
Il primo amore si scorda ogni momento. Ma resta dentro.

UNA PORTA DI GIARDINO APERTA SUL CONTEST


Post che parla di musica

Se mi affaccio alla porta finestra del giardino vedo da fuori molto cose. Da questa prospettiva queste cose si vedono ad una distanza più adeguata. Mi trovo ancora in una posizione per cui le dimensioni di certi problemi mi appaiono di media entità. In realtà credo che abbiano ancora meno rilevanza. Ma senza necessariamente prendere la bilancia, a questa distanza voglio partecipare, con un mio contributo, ad alcuni temi che sono entrati nella discussione social e che forse prenderanno strade più istituzionali.
Partecipo ancora ad alcune giurie – non a moltissime – e lo faccio davvero con piacere.
Vorrei provare a mettere ordine in mezzo a tanta emotività che vedo scatenarsi, soprattutto ogni volta che si parla di Tenco o di Targa Tenco. Emotività a cui in passato ho partecipato e che vista da fuori in effetti appare davvero fuori misura. Ma lo capisco: le Targhe Tenco sono obiettivamente importanti e di prestigio. Tutti ci tengono a riceverle e tutti hanno qualcosa da dire.
Ma il discorso che farò io non riguarda solo questo.
Riguarda festival, premi e contest in tutte le forme.
Prima cosa: conflitti di interesse. Partiamo dal concetto che TUTTI ne siamo vittime e colpevoli più o meno consapevoli. Perché prima ancora che andare a guardare produttori, discografici e addetti stampa, ricordiamoci le nostre amicizie e i nostri rapporti personali, che sono evidenti, ora con i social più che mai. Direi che questo è un problema che riguarda mica solo le giurie. Riguarda il nostro lavoro, i dischi che decidiamo di recensire. Di recensire bene e di recensire male. Degli inviti che facciamo nelle nostre trasmissioni radio e tv. Eccetera.
Quindi noi operatori e critici influenziamo sempre il “mercato” (anche quello culturale) ogni momento. Perciò prima di qualsiasi altra considerazione vediamo di guardare il nostro operato. È difficile. È una delle ragioni per cui mi sono ritirata per un bel po’ dalla critica: non l’unica. Ma non amo le pressioni e i condizionamenti, anche quelli che nascono da me. Occhio a questo.
E ora veniamo alle cose tecniche. Innanzitutto distinguerei tra le competizioni tra dischi e quelle tra artisti sulla base di una performance e con selezioni che si basano su una o due canzoni.
Nel primo caso si giudica un progetto nella sua interezza. Quello specifico progetto e non un altro. Come il Loano. O come il Tenco.
Le Targhe Tenco riguardano tutti i dischi usciti e non solo quelli che si “candidano” in piattaforma. Vi si concorre interamente anche nostro malgrado, tranne casomai rifiutare se non si è d’accordo.
Il meccanismo è noto. Ed è noto come, dopo le dimissioni del vecchio direttivo, il nuovo corso abbia azzerato una serie di cose e i controlli siano diventati molto asettici. Anzi all’inizio nemmeno c’erano (vedi il caso Giovanardi).
Di recente è uscito un articolo di Giuseppe Provenzano che solleva alcuni problemi.
Uno di questi è stato il caso di un candidato che era anche giurato. Il candidato aveva chiesto al Tenco cosa dovesse fare, intendendo forse prendersi un “anno sabbatico”. Il Tenco non ha risposto. Alla fine il candidato ha deciso di votare lo stesso. Ha votato nella sua categoria altri dischi e non il suo.
Allora vediamo il caso generale: un giurato che si trova candidato di fronte ad una lacuna del regolamento che deve fare? Se vota se stesso fa una scorrettezza.
Se invece vota altri, come ha fatto il candidato in questione, addirittura SI DANNEGGIA. Potrebbe essere il caso infatti che proprio quel suo voto in più abbia mandato in cinquina qualcuno escludendo il suo disco.
Sono i paradossi di queste situazioni. Il perché il candidato abbia scelto di votare è giustamente affar suo.
L’errore è a mio parere del Tenco. Che non gli ha risposto e non ha tutelato lui come giurato e come candidato e non ha tutelato nemmeno la gara.

Altro discorso ancora riguarda l’esordio di Paolo Jannacci. Tecnicamente è un esordio. Perché è opera prima da cantautore. Non è la prima volta che accade una cosa del genere. Io personalmente ho votato Voltarelli e Monguzzi illo tempore. Perché? Perché siccome era possibile da regolamento non vedevo la ragione di non votarli. Per chi rileva però che non si tratta di un esordiente (per me è un falso problema), una cosa così non è risolvibile con il regolamento, perché non si possono escludere gli album di musicisti che suonano su un altro disco precedente magari solo come turnisti e che poi diventano cantautori. Sarebbe assurdo.

Come ovviare a queste cose?

La famigerata pregiuria di cui parla Provenzano si chiamava commissione, è durata tre anni e serviva proprio a controllare questo tipo di situazioni. Faccio il caso del disco di Mesolella, il nostro Fausto, che era tecnicamente un esordio ma non poteva certo andare in quella categoria. Così andò giustamente nell’assoluto.
Ricordo per chi non lo sa che può esservi il caso ad esempio di un album in dialetto che sia un esordio: può concorrere sia per il dialetto, che per l’esordio, che per l’assoluto.
La commissione metteva praticamente le cose al suo posto. Scartava di solito le cose “con le chitarre non accordate” (cioè gli orrori fatti nella cameretta col Pc) o le cose fuori regolamento. Nelle varie categorie entravano tutte le proposte, sia quelle inviate dai candidati, sia quelle segnalate dai giurati in commissione, perché non arrivavano mai a 50. Solo nell’assoluto e nell’esordio vi erano delle vere esclusioni perché erano molti dischi.
Non era la perfezione, tutto poteva essere migliorato, o radicalmente cambiato, ma a fronte di 500 dischi l’anno anche solo come aiuto tecnico e non di contenuto una cosa simile ancora adesso servirebbe.

È solo ovviamente un consiglio come tanti.

E ora, esaurito il discorso Tenco, veniamo agli altri contest e alle altre discussioni.
Si tratta di contest privati e liberi. Non stiamo parlando di concorsi pubblici dello Stato. Questo non vuol dire che non debbano essere corretti, anzi! ma che chi li organizza è libero di farlo secondo i propri criteri. L’importante è che siano da subito e da prima pubblici e trasparenti. Quando una cosa non convince, perché iscriversi? Si sa come funziona sin dall’inizio: è tutto già scritto.
Non siete d’accordo con la competizione? Giusto quindi o non partecipare come artista, o non far partecipare i propri artisti come manager o discografico, o togliersi dalle giurie come giurato.
Eliminare i contest? Sono di solito finanziati dai Comuni. E se fossero solo rassegne probabilmente le giunte comunali vorrebbero solo grandi nomi. Così invece sono pensati direttamente per emergenti, con magari un paio di big ad attirare l’attenzione. In questa Italia difficile, fare un contest è più praticabile. È un dato di cui dobbiamo tenere tutti conto. Anche se per prima amo i viaggi verso Utopia.
Penso che in questi contest dovrebbero partecipare solo gli emergenti. Gli altri – gli artisti ben strutturati – forse sarebbe meglio evitassero, perché rischiano delusioni. A meno che non sia più importante per loro promuoversi – e quindi fanno benissimo, specie se hanno un album in uscita – e se hanno la serenità di accettare la possibilità di essere “sconfitti” da un pischello, solo perché ha azzeccato un ritornello radiofonico.

Queste cose servono veramente e solo per farsi sentire da una giuria di addetti ai lavori. Per far conoscere il proprio lavoro in un contesto difficile e chiuso come è quello italiano. Non certo per prendere un premio.

Ci sono giurie più pure, nel senso che sono fatte di soli critici, e altre più composite, con anche produttori, discografici, critici, uffici stampa, artisti.
Conflitti di interesse?
Quelli legati alle amicizie (che sono i più diffusi e anche i meno controllabili) li ho già detti. Gli altri si evincono. Riguardano evidentemente tutto e tutti. E allora che si fa?
Non ci si fida?
Voti palesi?
Ero d’accordo e io ho sempre dichiarato i miei voti pubblicamente. Quindi perché no?
Però voglio mettere una pulce nell’orecchio.
Lo sapete che quando il Tenco li rese pubblici molti giurati chiesero di uscire dalla giuria? E non perché ci fossero le fantomatiche cordate (fate i nomi quando buttate lì queste cose lasciando intendere chissà che, facendo pensare che la sapete lunga: se la sapete, vivaddio, arrischiate, perché lo vogliamo sapere anche noi), ma perché molti sono stati aggrediti da alcuni artisti e produttori amici. E più in generale altri si sentivano obbligati a votare in un certo modo per rapporti personali, per non offendere qualcuno, e quindi votavano senza limpidezza.
Quindi attenzione: il voto palese può addirittura condizionare negativamente il risultato finale.
Ma se volete eliminare tutti i sospetti di sostegni poco chiari, vi dico che gli unici che restano a poter votare senza il dubbio di far favori sono allora solo “gli spettatori da casa” col Totip, quelli che non se ne intendono, che non hanno gli strumenti per giudicare, ma non hanno rapporti personali e interessi legittimi.
Fàmo Sanremo? Già c’è.

In finale, basta gare, meglio rassegne, come ho letto?
In un mondo ideale sì, lo dicevo già prima.
Ma in questo mondo reale esiste sempre una direzione artistica che sceglie. Ne sanno qualcosa proprio gli organizzatori del Tenco.

In questo clima di sospetto diventa già oggi: “Non vengo invitato non perché non ci sono solo io ma mille bravi altri artisti, o perché il tema non c’entra niente con la mia poetica, o anche perché quando canto e suono live faccio cagare o magari no, però fa cagare il mio ultimo disco eccetera, ma perché non sono amico di Tizio, non l’ho dato a Caia, non ho frequentato Sempronio”.
Che palle!
La verità è che il mondo è fatto di errori; sacrosanta comunque è sempre l’intenzione di provare a correggerli: che sia chiaro. Ma perché gli organizzatori dovrebbero volerlo fare, se tutto viene detto in un clima di sospetto?
Ho criticato molto il Tenco in questi anni. E le votazioni delle targhe. Ma non ho mai dubitato un attimo della correttezza dei risultati e della correttezza delle votazioni dei giurati.
Mai.
La dò per scontata. Io quando critico il Tenco vorrei che il Tenco valutasse le cose che dico. Ma se facessi intendere che fanno combine perché mai dovrebbero prendermi sul serio? Avrebbero ragione!
Infine: ho letto un passaggio in cui sembrava – magari ho capito male – che in questi contest i giurati vengono in qualche modo pagati e gli artisti invece devono sostenere le spese. O che comunque viene privilegiata l’ospitalità dei primi. A scanso di equivoci. Ci sono delle situazioni in cui si viene ospitati da giurati in modo fantastico. E grazie sempre! Ma mi risulta anche gli artisti.
In altri casi si viene invitati carinamente a cena.
In altri no. Vedi il Tenco: ho fatto la commissione per tre anni smazzandomi 500 dischi l’anno (è stata una crescita per me: sto giocando) e
non mi hanno mai offerto manco la cena. Solo una volta è accaduto di non aver pagato, ma solo perché la mia Radio era mediapartner del Tenco. E invece, per la miseria, gli artisti erano ospitati. Ci mancherebbe pure! Non penso che questa cosa sia cambiata anche se non frequento più l’ambiente. E comunque devo pure dire che nei miei primi anni eravamo tutti ospiti alle cene: oltre agli artisti, anche tutti i giornalisti accreditati e gli addetti ai lavori. Poi hanno avuto problemi di soldi. E hanno privilegiato gli artisti. E mi sembra pure inutile dover sottolineare come sia giusto e sacrosanto così: senza di loro noi non siamo proprio nessuno. E dovremmo ringraziarli ogni momento per darci la possibilità di essere meno inutili.

Insomma, facciamo tutte le proposte del caso, apriamo tavole rotonde, mettiamo tutto in gioco, o meglio fatevelo voi. (Io mai più, per la gioia di alcuni di voi e per la gioia mia che alcuni di voi non voglio mai più incontrare: lo vedi che la cosa è reciproca?) E quindi andate e fate, tanto ci sarà sempre lo sapete un musico fallito un pio un teorete un Malantrucco un prete a sparare cazzate (mi perdoni il grandissimo Bertoncelli per il paragone blasfemo di cui non sono degna).

Ma ricordate che al di là della vostra e nostra piccola visuale esistono tante altre cose che non vedete e non vediamo.
E che invece bisognerebbe vedere. Così come è bene che tutti quanti (chi parla e chi ascolta, chi critica e chi è criticato) si chiedano sempre: cui prodest? È solo un consiglio. Ma secondo me è un ottimo consiglio.

E ora richiudo la porta finestra del giardino. Sta a mette un po’ di umidità.

La pianta nomade


Otto, la pianta che mi ha regalato Daniela Esposito una Pasqua di un secolo fa, e ribattezzata a furor di popolo qua sul social, non solo è cresciuta ma diventa ogni giorno più rigogliosa.

Otto è una pianta piena di speranze. A lei non importa dove sta. Importa casomai stare con me.

Così all’ennesimo trasloco in casa, causa Covid e Smart Working, ha trovato posizione solo nel bagno. E sì. Non c’era un altro posto adeguato dove metterla.

E però lei sembra incurante. È felice e sforna foglie immense un giorno dopo l’altro.

L’aspetta un altro trasloco questa estate per andare al Paese in montagna.

È una pianta nomade, come la sua compagna di viaggio, che poi sarei io.

Bisogna essere come quella pianta. Devo essere, tornare ad essere come lei. Ovunque mi trovi piena di speranze, sempre pronta a fare nuove foglie puntate verso il cielo.

Foglie nomadi, come Otto. Come me.

La vita e la pazienza


Nella vita ci vuole molta pazienza.
Molta speranza.
Molta comprensione.
Molta mediazione.
Ci vuole dolcezza, parole adeguate, silenzi opportuni, delicatezze pensate.
Ci vuole cura, attenzione, moderazione, attesa.
Ci vuole accoglienza, ricettività, ampiezza, spazio.
Ci vuole anche molto tempo, molta meditazione, molta capacità di ascolto.
Soprattutto molta capacità di ascoltare sussurri, sbadigli, parole pensate.
Ci vuole tutto questo e molto altro ancora nella vita che sia attento e appena appena accennato, potremmo dire felpato.
Bisogna sempre camminare in punta di piedi come ballerine senza curarsi delle vesciche e dei lividi.
Bisogna fare tutto questa attenzione nella vita.
Nella vita propria.
E quando si incontra la vita degli altri.

Però ogni tanto bisogna pure dillo, quando ce se rompe li cojoni.

o no?

UOMINI E DONNE


Nella maggior parte dei casi parlo con donne. Da sempre. Anzi, per meglio dire, con esseri umani di sesso femminile. Perché quando Eleonora veniva a casa e chiedeva a mamma se aveva comprato il salame ungherese e giocavamo alla favola di Cenerentola non può dirsi che fossimo ancora donne.
Neanche quando qualche anno dopo ci si riuniva sempre a casa mia per vedere Candy Candy con Claudia e Carlotta.
O quando, poco dopo, il sabato ci si riuniva per il tè proprio da Carlotta con le sue compagne di scuola.
Ma ad ogni modo che si trattasse di bambine adolescenti ragazze giovani donne o babbione sempre di gineceo si è trattato.
Noi donne ci confrontiamo molto e parliamo molto tra noi. Ci raccontiamo proprio le cose: ci serve a capire meglio. Ad aiutarci. E ridiamo anche molto insieme. Di cose irraccontabili nella maggior parte dei casi. Di certo riusciamo a parlare delle nostre debolezze, di quelle fragilità che è difficile spiegare a un uomo anche dopo cinquanta anni di convivenza.
Con nessun uomo potrei fare in scioltezza la mia passeggiata del sabato in centro. Questo è scontato.
Il mio universo è sempre stato prettamente femminile. Ricettivo, per usare un termine caro all’i ching.

Però l’interlocuzione con un uomo ha proprio un senso diverso. Che non ha proprio nulla a che vedere con quanto ho detto fino ad ora.
Non ne sto facendo ora un discorso di seduzione, di attrazione, di feeling, di flirt, di ammiccamento.
Ritengo in realtà che tutto questo ci sia comunque sempre, specie all’inizio di un rapporto umano, anche quando non si esplicita in atti concreti. Intendo dire che secondo me questo esiste anche con un amico gay o con un amico di infanzia verso il quale si nutre un affetto totalmente casto, tanto per fare due esempi. È proprio un fatto di dinamica, di attrazione umana. È proprio il modo in cui ci si annusa.

Però appunto, tralasciando questo che è un discorso complesso oppure dandolo per scontato come elemento indispensabile del discorso stesso, parlare con un uomo dà sempre risposte diverse e inaspettate. Regala sempre spunti nuovi alla riflessione, spinge comunque a guardare oltre l’ostacolo con armi nuove.

Non si tratta di “imparare cose nuove” ma di vedere la vita ogni tanto non come un’area che si espande ma come una freccia che si proietta in avanti.

Se confrontarmi con le donne ha segnato da sempre il corso della mia vita, confrontarmi con gli uomini ha determinato il suo benessere.

E buongiorno a tutti.

DEL BAMBINO LIBERO


Per strada, sui mezzi pubblici, nei giardini, mi capita un po’ troppo spesso di vedere bambini sovrappeso. Un sovrappeso innaturale, tendente all’obesità. Li vedo questi bambini in abiti da infanzia, in calzoncini, le cosce appesantite che si toccano e tendono ad incrociarsi, le magliette troppo aderenti con le braccia larghe perché già il grasso le allontana troppo dal dorso. Li vedo questi bambini con doppia pappagorgia che mangiano, masticano sempre; li immagino bullizzati a scuola.
Scuoto la testa. Vorrei andare dai genitori e dir loro: perché li volete condannare all’infelicità? Cosa date loro da mangiare? Perché non fate qualcosa per evitare?
Poi penso pure però che io non ho il diritto di giudicare. Che ne so io? Non sarà facile gestire queste cose.

Così oggi guardavo sto bambino da dietro così impacciato mentre si muoveva sculettando perché già il peso lo faceva muovere innaturalmente. Lo guardavo proprio con questi pensieri quando lui, all’improvviso, si è piegato leggermente in avanti, ha allargato le braccia ad aeroplano, si è dato una spinta immaginaria e ha cominciato a correre, a correre lungo la via del Circo Massimo, prendendo sempre più velocità. E più prendeva velocità e più la corsa si aggraziava, le gambe diventavano dritte e il busto si allungava.
Poi le braccia sono diventate ali mentre nella corsa virava.

E il bambino, come falco, ha volato.

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